Giulio Albanese,dobbiamo scongiurare lo scontro delle civiltà.

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Molti amici di Facebook mi hanno chiesto d esprimere il mio punto di vista sull’aberrante fenomeno del terrorismo. Ecco che allora ho pensato di buttare giù alcune riflessioni che ho sviluppato in modo più organico nel mio recente saggio VITTIME E CARNEFICI (Ed. Einaudi). Nelle diverse forme di terrorismo che da sempre insanguinano la storia, quello di matrice islamista, o meglio jihadista, si pone chiaramente come la mannaia di questo primo segmento del Terzo Millennio. Colpisce dappertutto, con il risultato che a pagare è sempre la povera gente; poco importa che si tratti delle vittime di New York, Madrid, Londra, Bruxelles, Parigi, Bamako, Ouagadougou o Lahore. Per non parlare di altri scenari infuocati e meno mediatizzati come la tormentata Somalia dove dal lontano 1991, di fatto, lo stato di diritto è letteralmente imploso, o anche il nord-est della Nigeria, dove le stragi si susseguono quasi quotidianamente, ma sono di fatto scomparse dalla grande informazione internazionale dopo che a suscitarne l’interesse era stato, tre anni fa, il rapimento di oltre duecento ragazze da parte del gruppo jihadista Boko Haram.

E questo fa riflettere su come di un tale abberrante fenomeno parlino un po’ tutti – in primis noi giornalisti – senza cercare di indagare davvero le idee che lo hanno prodotto e le ragioni del suo radicamento, tradotto in sistematici misfatti. In realtà, come in tutte le teorie assolutiste, anche questo delirio di feroce onnipotenza ha avuto un’origine precisa. Gioverà allora riavvolgere la moviola della storia e fissare l’attenzione su un certo Sayyid Qutb. Nato all’inizio del Novecento nell’alto Egitto, questo signore influenzò non poco il pensiero di molti integralisti appartenenti a schieramenti diversi, dal sunnita wahabita Osama Bin Laden all’ayatollah sciita Khomeini.                                                                                           Qutb fu fatto arrestare dal regime nasseriano per la violenza eversiva delle sue idee. Negli anni che trascorse in carcere (prima dell’impiccagione) radicalizzò le sue teorie rendendole, in un certo senso, più fruibili. In qualche modo fece come Hitler, che pescò da teorie di presunta superiorità di razza per portarle alle spaventose conseguenze che tutti conosciamo.            La parola chiave del suo vocabolario è jahiliyyah. Si tratta di un termine che nel linguaggio islamico indica l’epoca dell’ignoranza, cioè quella precedente la rivelazione coranica. Qutb ne perverte il significato accomunando in tale ignoranza i sistemi democratici, il comunismo sovietico, i regimi arabi, opponendoli al vero islam, quello che il jihad deve imporre, rovesciando con le armi i regimi arabi contaminati dalle politiche coloniali che seguono leggi umane e non la legge divina, quindi sono degli usurpatori.                                                    Di fatto la teorizzazione di Qutb ha plagiato molte coscienze nella vasta costellazione jihadista, fautrice dell’imposizione, senza sé e senza ma, della sharìa, la legge islamica. Molti di questi movimenti – da ultimo quello aberrante dell’Isis – sono nati con una forte connotazione territoriale, da Al-Qaida nel Maghreb islamico ad Al-Shabaab in Somalia, per non parlare di Boko Haram in Nigeria. Col risultato che queste organizzazioni criminali hanno di fatto strumentalizzato la propria religione, per fini eversivi, affermando un’ideologia mortifera e alienante.                                                                                                                    Data tale dislocazione territoriale, la maggior parte delle loro vittime sono musulmani, anche se la loro propaganda si caratterizza per le invettive contro i cristiani. Questo per due ordini di motivi: il primo è l’identificazione del cristianesimo come metafora dell’occidente in preda ai tentacoli di satana, dimenticando per grossolana ignoranza che Gesù Cristo nacque in Palestina, dunque in Medio Oriente.                                                                                      Il secondo è che si tratta di gruppi tutt’altro che inchiodati a un passato più o meno mitico (il Califfato che dicono d voler restaurare), ma che sanno usare benissimo gli strumenti della modernità. Vale per la capacità di trovare armi e finanziamenti da quei Governi e Paesi che in teoria dicono di combatterli. Vale soprattutto perché conoscono bene gli schemi della grande comunicazione. Sanno infatti benissimo che colpendo target cristiani, come nel caso del recentissimo attentato suicida a Lahore, bucano lo schermo ottenendo la massima visibilità a livello mediatico dal circuito mainstream.                                                                          Due giorni prima, per fare un esempio, oltre 40 persone, molte delle quali giovanissime, hanno perso la vita dell’attacco suicida avvenuto durante una partita di calcio a Iskanderiyah, in Iraq. L’attentato, avvenuto nel piccolo stadio del villaggio, è stato rivendicato dall’Isis che, in un messaggio, ha affermato di aver preso di mira i miliziani shiiti. Questo massacro è passato in sordina sulla stampa nostrana, mentre invece quello di Lahore ha ottenuto le prime pagine. Ripetendo cioè uno schema che domina da anni, con poche significative eccezioni via via sempre più ridotte al silenzio. E questo pone un problema di fondo che riguarda sia l’etica dell’informazione sia l’onestà intellettuale tout court. I terroristi jihadisti uccidono chiunque si opponga al loro delirio; anzi uccidono soprattutto chi vive l’islam come una religione di pace.                                                                                                Affermare, che siamo di fronte ad una “guerra di religione” – come spesso fanno molti – significa dunque legittimare di fatto una strategia criminale finalizzata allo scontro delle civiltà. Si tratta di una “trappola” ideologica nella quale l’Europa non deve cadere perché implicherebbe, nei fatti, la criminalizzazione di tutto l’islam, con conseguenze devastanti a livello planetario.                                                                                                           Detto questo, sarebbe ora che l’occidente uscisse dal letargo considerando che il terrorismo è asimmetrico e non si vince con gli eserciti. Dietro le quinte, è chiaro, si celano gli interessi economici del salafismo più intransigente, quello delle Petromonarchie del Golfo. Si tratta di una vecchia storia, più volte svelata da autorevoli osservatori internazionali, ma quasi mai denunciata dalle grandi democrazie euro-atlantiche. Basti pensare agli ingenti investimenti dell’Arabia Saudita e del Qatar in Europa. E cosa dire dei pericolosi e profondi legami tra il terrorismo e la finanza? Al G20 di Antalya sull’argomento è stato presentato anche uno specifico rapporto sull’emergenza terroristica preparato dal Financial Action Task Force (Fatf), il coordinamento giuridico intergovernativo, creato nel 1989, che coinvolge più di 180 Paesi, con il compito di indicare degli standard legali e operativi da applicare nella lotta contro il riciclaggio di denaro, contro i finanziamenti del terrorismo e altre minacce all’integrità del sistema finanziario internazionale. Da esso si evince che la maggior parte dei Paesi, circa i due terzi, non ha mai fatto uso pratico delle sanzioni finanziarie mirate contro il terrorismo, anche se sollecitate da risoluzioni Onu. A riprova che finora è mancata la volontà politica di sconfiggere i terroristi.                                                                                                        In questi ultimi due anni, secondo fonti del Congresso Usa, 30mila barili di greggio al giorno, trasportati da almeno 250 autobotti dell ’Isis, sono transitati attraverso i confini della Turchia e del Iraq settentrionale per essere venduti a compiacenti acquirenti, consapevoli di sostenere le operazioni terroristiche. Come mai l’occidente e in generale il consesso delle nazioni fanno finta di non vedere?

fonte fb:Gulio Albanese, dal libro Vittime e Carnefici (Ed. Einaudi).

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